Basato sull’omonimo racconto contenuto nella raccolta Men Without Women di Haruki Murakami, Drive My Car si candida a ripetere la doppietta messa a segno da Parasite che nel 2020 vinse sia nella categoria miglior film che in quella miglior film straniero. Certo, sarà molto difficile, ma la pellicola diretta dal giapponese Ryusuke Hamaguchi si presenta all’appuntamento del Dolby Theater con diversi prestigiosi premi tra i quali: miglior film in lingua non originale ai BAFTA 2022, miglior sceneggiatura a Cannes 2021 e il Golden Globe 2022 quale miglior film straniero.

In ogni caso, la candidatura di Hamaguchi anche nella categoria miglior regia è già una conquista se pensiamo che l’ultimo regista giapponese a essere stato preso in considerazione è Akira Kurosawa, ben 36 anni fa. Hamaguchi è consapevole del traguardo già raggiunto e non manca di attribuire parte del merito a Bong Joon-ho che proprio tramite Parasite ha aperto una porta attraverso la quale sia il suo film che tutti gli altri a venire, di lingua non inglese, potranno passare.

Considerazione, questa, che si sposa perfettamente con uno dei temi portanti di Drive My Car: comunicare con gli altri, nonostante una moltitudine di linguaggi diversi, diventa possibile grazie a un’opera di finzione. Al centro della storia troviamo infatti il regista Yûsuke Kafuku impegnato ad allestire una rappresentazione molto particolare di Zio Vanja di Anton Čechov: Kafuku ha deciso che ogni attore e attrice dovrà recitare nella propria lingua di origine, inclusa la ragazza scelta nel ruolo di Sonja che si esprime attraverso il linguaggio dei segni. 

drive my car

La vita di Kafuku è segnata da due lutti, il più recente è la morte della moglie Oto, sceneggiatrice televisiva di successo. La sua routine, anche dopo la scomparsa di Oto, continua a essere la stessa: ripetere a memoria e provare le battute con l’aiuto di una audiocassetta su cui è registrata la voce della moglie, e tutto questo mentre guida per le strade della città a bordo della sua Saab turbo rosso fuoco.

La macchina in Drive My Car riveste un ruolo cruciale assolvendo a molteplici funzioni: è un oggetto di scena, un plot device, un punto di ritrovo, funziona da lettino dello psicologo, ma soprattutto rappresenta un luogo fuori dallo spazio, sebbene lo attraversi, che favorisce l’intimità e la confidenza tra anime affini.

Nel momento in cui Kafuku è costretto a lasciare la guida a una giovane autista assunta dalla compagnia teatrale, abbandonare la posizione di comando e rimettersi nelle mani di un’altra persona sarà il primo passo per tornare a fidarsi di un altro essere umano.

Tutti i personaggi di Drive My Car hanno a vario titolo un trauma da elaborare, tutti hanno subito in qualche modo una sorta di violazione della propria fiducia e capacità di relazionarsi, e quel tipo di lavoro psicoterapico insito in ogni rappresentazione teatrale sarà il mezzo ideale per dare voce e significato ai propri drammi inespressi.

drive my car

Hamaguchi dirige con precisa eleganza un ensemble di attori in stato di grazia – Hidetoshi Nishijima (Kafuku) e Tôko Miura (Misaki Watari, l’autista) su tutti ma le tre ore di durata risultano punitive e immotivate per la messa in scena di una storia che avrebbe solo tratto giovamento da un’ora in meno. A fine film, la sensazione è quella di aver assistito a un grande fraintendimento per il quale ciò che è importante deve essere anche estenuante.



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Mara Ricci

Serie tv, Joss Whedon, Jane Austen, Sherlock Holmes, Carl Sagan, BBC: unite i puntini e avrete la mia bio. Autore e redattore per Serialmente, per tenermi in esercizio ho dedicato un blog a The Good Wife.

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